RELIGIONI, TERRITORIO ED AUTONOMIE LOCALI. L'ESPERIENZA ITALIANA
Il modello decentrato è comunque oramai parte del sistema di gestione del pluralismo religioso nella società italiana. Pur nella consapevolezza della molte criticità e delle difficoltà di superamento delle queste, la scelta del coinvolgimento del territorio in aspetti ritenuto a lungo di esclusiva competenza centrale credo sia una strada senza ritorno.
Le religioni e il territorio
Le confessioni religiose, anche quelle a più alta caratterizzazione spirituale, non possono far a meno di confrontarsi con il territorio e le organizzazioni statuali che lo governano. Così come non possono rinunciare ad una organizzazione più o meno istituzionalizzata (ordinamento giuridico) con apparati normativi che in molti casi somigliano a quelli statuali con i quali quasi sempre comunicano, spesso collaborano, ma anche in molte situazioni si contrappongono. Molto dipende dalla storia, dal sistema di relazione tra stato e confessioni operativo nello specifico territorio, dal contesto politico e dalla presenza o meno di un pluralismo religioso più o meno ampio.
Più che addentrarci nelle combinazioni di queste variabili mi pare interessante proporre una distinzione tra le figure di fedele-cittadino e quella di cittadino-fedele, due diverse modulazioni per raccontare la duplice visione che insiste nello stesso individuo che vive sul territorio la sua identità: religiosa e civile. La prima figura, anteponendo l’appartenenza religiosa a quella civile e dunque l’appartenenza alle confessioni e ne rafforza il ruolo (rappresentanti degli interessi religiosi). Il territorio in questa dinamica è lo spazio nel quale le religioni si confrontano, tra di loro (pluralismo) e con lo Stato, alla ricerca di un equilibrio che garantisca il massimo di riconoscimento delle proprie esigenze (diversità), così da prevenire – per quanto possibile – i conflitti tra regole religiose e regole civili. Forme, modalità, strumenti, soggetti coinvolti varieranno in ragione degli assetti organizzativi propri dello Stato e delle confessioni stesse, ma resterà fermo l’intento di tutelare gli interessi religiosi del singolo attraverso il filtro delle esigenze dell’organizzazione, con il limite da parte statuale del rispetto di tutti i diritti garantiti dal proprio assetto costituzionale.
La seconda, quella di cittadino-fedele, guarda all’appartenenza alla “città degli uomini”, prima che alla “città di Dio”, e pone sul tappeto la questione di cosa lo Stato e più in particolare le sue articolazioni territoriali possano e debbano fare per un’effettiva ed efficace garanzia della libertà religiosa di tutti i suoi abitanti (cittadini) nel rispetto delle diverse fedi professate. Superata la convinzione che gli ordinamenti civili si misurino con la religiosità dei propri cittadini con le posizioni estreme della commistione/strumentalizzazione o del disinteresse con il conseguente confinamento del religioso nella sfera del privato, il “territorio” assume il ruolo di catalizzatore, protagonista di forme e modalità di intervento a potenziamento della libertà religiosa dell’individuo, che proprio perché tutelata a partire dalla sua cittadinanza civile, può essere articolata lungo schemi di protezione che disegnano un sorta di welfare religioso, perciò nettamente distinti da quelli posti in essere per il fedele-cittadino.
L’esperienza italiana: dal centralismo al regionalismo potenziato
Questo diverso atteggiarsi del territorio nell’ambito della questione religiosa e più compiutamente nel diritto ecclesiastico italiano si è venuto dipanando nel tempo e in maniera non sempre lineare. Nella prima fase, quella del ritorno alla tutela della libertà religiosa dopo il ventennio fascista con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, il ruolo assunto dalla questione concordataria e dal mantenimento dei Patti lateranensi e la natura fortemente istituzionalizzata dei due principali interlocutori (Stato e Chiesa cattolica) hanno imposto un modello di relazioni all’insegna della centralizzazione; uno schema proposto dalla Costituzione, con le dovute accortezze terminologiche (art. 8, 2° e 3° comma), anche rispetto alle altre confessioni religiose. Occorre immediatamente segnalare che la Costituzione repubblicana proponeva una innovativo ruolo per le Regioni con il riconoscimento di poteri legislativi che, pur se limitati nell’esercizio dalla predisposizione di principi generali (norme quadro) dettati dallo Stato, aprivano ad un decentramento significativo che però almeno apparentemente (art. 117 cost.) non interessava la materia religiosa. La revisione del Concordato del 1929 portata a compimento nel 1984 e la sottoscrizione delle prime Intese ex art. 8, 3° comma della Costituzione con altre confessioni nel solco della forte istituzionalizzazione pur se ampiamente positive hanno comunque evidenziato più di una perplessità circa la capacità di gestire un pluralismo religioso che si stava consolidando nella società italiana anche in ragione dell’ampliarsi dei flussi migratori. Se da un lato sono risultati vani i tentati di predisposizione di una legge generale sulla libertà religiosa nella quale far confluire una parte considerevole della normativa pattizia (intese con le confessioni religiose) che più che attenere al rapporto fedele-cittadino, sembrava riferirsi al ruolo diretto dello Stato come garante dei diritti del cittadino-fedele in tema di libertà religiosa. Dall’altro si rafforzava l’esperienza delle Regioni come legislatori e amministratori del fenomeno religioso, anche alla luce della riforma costituzionale del 2001 che ampliando le competenze legislative regionali (art. 117) e riconoscendo in via principale quelle amministrative agli enti locali (art. 118) rilanciava il principio di sussidiarietà sia in senso verticale (rapporti tra enti statuali), che orizzontale (rapporti con i privati e anche con le confessioni religiose: art. 118, 4° comma). Si affacciavano sul palcoscenico del diritto ecclesiastico (tutela e promozione della libertà religiosa e relazioni con le confessioni religiose) nuovi protagonisti e nuovi spazi nel cui ambito implementare azioni a tutela delle esigenze religiose del cittadino. Spostandosi dal centro alla periferia anche il modello principale di relazioni con le confessioni cambia e con esso il significato di “territorio”, non più da intendersi come “spazio nazionale” sul quale insistono sovranità (religiosa e civile) da contemperare, ma come “spazio locale” nel quale il cittadino-fedele vive nella quotidianità la propria spiritualità garantito ed assistito anche dall’azione delle autonomie territoriali.
Ambiti e modalità di intervento
Per meglio comprendere il senso di quanto fino ad ora esposto è utile sintetizzare il contenuto degli articoli 117 e 118 della Costituzione italiana che si occupano della ripartizione delle competenze legislative ed amministrative, ovviamente avendo come focus i temi della libertà religiosa e dei rapporti con le confessioni religiose.
L’art. 117, nella versione riformata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, dopo aver riconosciuto che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (1° comma), ripartisce questa competenza per tipologia (esclusiva e concorrente) sulla base di una distinzione per materie. Allo Stato viene riconosciuta competenza esclusiva relativamente alle materie elencante al 2° comma e tra queste troviamo i “rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose” (lett. c) (dell’elenco, per la loro incidenza nell’ambito del diritto ecclesiastico italiano, segnalerei anche le “norme generali sull’istruzione” (2° comma, lett. n) e la “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali” (2° comma, lett. s)). La riserva legislativa relativa ai rapporti con le confessioni deve essere letta in connessione con gli articoli 7, 2° comma (Chiesa cattolica) e 8, 3° comma (altre confessioni religiose) che regolano tali rapporti attraverso Concordati e Intese da sottoscrivere a livello centrale (principio pattizio).
Sempre l’art. 117, al 3° comma, riconosce alle Regioni, competenza legislativa concorrente (da esercitarsi nei limiti della determinazione dei princìpi fondamentali riservata alla legislazione dello Stato) in un insieme di materie tra le quali ai nostri fini occorre segnalare in ordine di citazione: l’istruzione; l’alimentazione; il governo del territorio; la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali. Quanto poi alle materie “non espressamente riservate alla legislazione dello Stato”, con una sorta di clausola di chiusura l’art. 117, 4° comma, dispone che spetterà alle regioni potestà legislativa esclusiva, aprendo così uno spazio ampio e di difficile determinazione di competenze al cui interno di volta in volta potranno essere rilevate anche questioni inerenti lo specifico religioso.
La riforma costituzionale del 2001 ha anche innovato rispetto alla ripartizione delle competenze amministrative, la nuova versione dell’118 infatti dispone che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. E’ un passaggio di grande interesse anche per i rapporti con le confessioni religiose.
L’applicazione ampia della sussidiarietà verticale individua negli enti locali nuovi protagonisti, anche se la formulazione delle due norme costituzionali non sempre identifica con chiarezza soggetti ed ambiti di azione. Nel richiamo ai rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose siano, il riferimento al fattore religioso è chiaro. Nelle altre il richiamo è implicito e la connessione con la dimensione religiosa va di volta in volta individuata e circostanziata. Ad esempio, nel caso dell’istruzione il collegamento è con la questione del diritto all’apertura di scuole di tendenza (confessionali) e il diritto allo studio degli studenti di queste. L’alimentazione, tema di recente interesse sulla scia delle riflessioni che si sono sviluppate con riguardo alle regole alimentari religiose e alla produzione di cibo religiosamente conforme, entra in gioco in ragione della possibilità/opportunità/doverosità di garantire pasti religiosamente conformi nelle scuole (in collegamento con la materia dell’organizzazione dell’istruzione). Sicuramente centrale è la materia del governo del territorio (urbanistica) che ingloba tutti gli aspetti relativi agli edifici di culto: piani urbanistici e riserva di aree per i servizi religiosi, autorizzazione alla costruzione di nuovi edifici, finanziamenti regionali per la costruzione e la manutenzione; apertura di luoghi di culto; cambio di destinazione di un locale ad altro adibito in luogo di culto. Non meno importante la legislazione regionale che interessa la valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso o semplicemente appartenenti ad un ente religioso (basti ricordare che la gran parte del patrimonio culturale italiano appartiene ad enti ecclesiastici). Ma le Regioni e gli enti locali sono coinvolti anche in altre tematiche, come ad esempio il turismo, materia di loro competenza esclusiva, rispetto alla quale lo Stato comunque esercita delle forme di indirizzo generale e di coordinamento la cui legittimità è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale. Negli ultimi decenni il legislatore regionale ha ampliato il suo intervento relativo al così detto “turismo religioso”, sia per le questioni relative all’organizzazione di viaggi e alla ricezione alberghiera legata ai pellegrinaggi e in generale ai viaggi a motivazione religiosa, sia per la connessione con la valorizzazione del patrimonio culturale attraverso, ad esempio, della promozione dei cammini religiosi (via Francigena, via Romea, etc.).
Peculiare il tema della gestione dei cimiteri e delle sepolture, ultimamente portato all’attenzione generale dalle tristi conseguenze della pandemia da Covid. In questo caso la competenza legislativa nazionale trova una sua determinazione nella potestà regolamentare riconosciuta ai Comuni. Ciò ha consentito una più efficace risposta alle esigenze sviluppate sul territorio in ragione del pluralismo religioso superando in alcuni casi le difficoltà derivanti dall’assenza di una intesa apicale a livello nazionale con la confessione interessata (es. predisposizione di aree speciali per sepolture islamiche).
Modelli decentrali e tutela della libertà religiosa: punti di forza e criticità
Su queste materie e non solo su esse è maturata già a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso una intensa attività legislativa e amministrativa di attuazione che ha proposto gli enti territoriali (principalmente le Regioni) come nuovi protagonisti in un settore (quello del diritto ecclesiastico) che li aveva visti a lungo emarginati. Questo nuovo modello decentrato sviluppato in attuazione e promozione di diritti quale quello di libertà religiosa (che nella garanzia dell’uguale trattamento nel rispetto della diversità trova un punto di equilibrio: artt. 3, 8, 1° comma e 20 Costituzione) accanto a chiari punti di forza, non ha mancato di evidenziare più di una criticità.
Tra i vantaggi va senz’altro annoverata la capacità di intercettare e meglio comprendere le necessità dei cittadini-fedeli. La vicinanza tra amministrati e ammiratori consente un utilizzo maggiormente razionale di risorse scarse e indirizza le soluzioni verso scelte misurate sul caso concreto sia dal punto di vista del contenuto, che da quello della forma; grazie anche ad un ampio ed articolato insieme di strumenti giuridici (atti amministrativi, ma anche contratti di natura privata, accordi di cooperazione, protocolli d’intesa) e il possibile ricorso anche ad un armamentario pre-giuridico quanto mai funzionale per l’azione di organismi decentrati quali i Comuni. Si favorisce la ricerca della soluzione mirata e misurata sulle specifiche esigenze del territorio rifiutando l’approccio centralistico del “one size fits all”.
Non mancano comunque le criticità, alcune strutturali, riconducibili alle difficoltà di chiarezza nella ripartizione delle competenze sia legislative che amministrative, ma anche connaturali al sistema di relazioni tra Stato e confessioni religiose. Di non facile soluzione è il problema generato dalla questione della rappresentanza degli interessi religiosi che nel sistema italiano trova una forte istituzionalizzazione a livello Costituzionale, e nei casi di confessioni senza una chiara forma di riconoscimento a livello centrale (Islam) rendono complessi i rapporti anche a livello locale.
Ma il principale ostacolo che il modello decentrato presenta è quello della garanzia dell’uguale trattamento. La diversità di trattamento che è propria dell’approccio locale, pur se temperata da un corretto utilizzo del principio di ragionevolezza, rischia di mettere in discussione quell’uniformità di trattamento a parità di condizioni che è alla base del rispetto del diritto di esercizio della libertà religiosa. Sulle scelte legislative regionali è spesso intervenuta la Corte costituzionale (ad esempio in relazioni alle norme della Regione Lombardia in tema di edilizia di culto: legge regionale n. 12 del 2005 e successive modifiche), ma ancora più discutibili potrebbero essere gli interventi Comunali che in ragione della diversità di scelte potrebbero determinare una garanzia “a macchia di leopardo”, che se non giustificata da concrete e ragionevoli esigenze del territorio, ma sviluppata sulla base delle scelte politiche più o meno favorevoli alla tutela del pluralismo religioso genererebbero un evidente violazione del principio di uguaglianza. Un fenomeno questo amplificato da una diffusa percezione sociale, spesso negativa, delle nuove presenze religiose sul territorio (non storicamente radicate) conseguenza di flussi migratori e soprattutto correlata al tema della sicurezza (terrorismo religioso). E non meno rilevante è il fattore economico che in ragione della scarsità di risorse a disposizione degli enti locali obbliga a scegliere quali interessi promuovere a parità di rilevanti compresi quelli di carattere religioso in molti casi però relativi ad una minoranza di cittadini-fedeli.
Le prospettive future
Il modello decentrato è comunque oramai parte del sistema di gestione del pluralismo religioso nella società italiana. Pur nella consapevolezza della molte criticità e delle difficoltà di superamento delle queste, la scelta del coinvolgimento del territorio in aspetti ritenuto a lungo di esclusiva competenza centrale credo sia una strada senza ritorno. Una scelta positiva ed opportuna che richiede sicuramento uno sforzo partecipativo da parte di tutti i soggetti coinvolti: anzitutto i cittadini – fedeli, le comunità religiose presenti sul territorio, le confessioni religiose e le loro articolazioni territoriali, gli amministratori, le associazioni dei cittadini e le organizzazioni politiche. Consapevoli della impossibilità della esclusione della dimensione religiosa dalla vita del territorio promuovere la partecipazione di tutti i soggetti religiosi alle attività delle comunità col favorire la reciproca conoscenza consentirà forme positive di contaminazione che aiuteranno la comprensione della diversità e incoraggiando l’instaurarsi di momenti di collaborazione faciliteranno l’integrazione. Attività queste che solo a livello territoriale possono trovare una consapevole realizzazione.